Il tema dell’inclusività, anche linguisticamente parlando, è ormai un argomento quotidiano. Nel settore della traduzione, la questione si fa complicata, soprattutto per quanto riguarda alcune lingue.
Vista la nostra origine italiana, ci rendiamo perfettamente conto che in alcuni casi tradurre e creare testi in maniera inclusiva può diventare un vero e proprio rompicapo: ecco le nostre regole di base.
1. Inclusivo si può!
Partiamo col dire che sì, si può tradurre in maniera inclusiva. Certamente, questo richiede uno sforzo e delle competenze maggiori. È uno di quegli aspetti per cui, a nostro parere, la traduzione automatica non è ancora assolutamente in grado di soppiantare una buona traduzione umana (ne abbiamo parlato qui).
2. Parafrasando…
Uno dei metodi più creativi (e a nostro parere più interessanti) per garantire una traduzione inclusiva, è quello della parafrasi. Al posto di tradurre “Welcome” con “Benvenuto/a” – piuttosto bruttino, in tutta onestà - perché non usare “Ti diamo il benvenuto”?
3. Non a tutti i costi.
Se è vero che tradurre in maniera inclusiva è possibile e che la parafrasi è uno strumento ideale per alcune lingue, ci teniamo anche a sottolineare che l’inclusività non deve essere rincorsa a tutti i costi. Se il testo di partenza parla di “sorella”, non ha senso cercare di cambiare il senso della frase per renderla più inclusiva.
Le lingue si adattano? Qualche esempio.
Partiamo dalla lingua che pare soffrire meno la questione, ovvero l’inglese. Avendo già grammaticalmente 3 generi (maschile femminile e neutro), non ci sono grandi dubbi: per rendere un testo inclusivo basta usare il “singular they”.
In tedesco, il dibattito è acceso perché si è deciso a tavolino di usare il simbolo dei due punti verticali per poi aggiungere la desinenza femminile a una parola. Ad esempio Fahrer:innen (per conducente), Politiker:innen (politico/a), Leser:innen (lettore/lettrice). Questo sistema però, oltre che ridurre il plurale femminile a una mera desinenza, non tiene conto di chi si identifica con un genere non binario.
Lo stesso metodo viene usato in francese, che trasforma le parole usando punto e desinenza femminile come “intéressé.e” o “citoyen.ne”. In francese sono stati creati anche pronomi neutri come “iel”, “ille”, “ul”e “ol”.
In spagnolo, si tende a usare la lettera “e” come desinenza per tutti i termini, sia maschili che femminili, per renderli inclusivi evitandone la declinazione. Tuttavia, la Real Accademia Española, non si è espressa positivamente per questa novità introdotta, sostenendo che l’utilizzo del maschile plurale non è discriminatorio e che quindi è la scelta grammaticalmente più corretta.
Veniamo infine al nostro italiano: l’uso del genere neutro non fa parte della nostra lingua, anche se l’Accademia della Crusca ci ricorda che “il maschile al plurale è da considerare come genere grammaticale non marcato.” Negli ultimi anni si è vista l’introduzione e il progressivo utilizzo dell’asterisco, che ha praticamente sostituito l’uso della barra, come ad esempio nel caso di “candidat*” al posto di “candidati/e”. Quest’ultimo sistema, tuttavia, resiste in particolare nei testi burocratici. Ancora più recente è l’introduzione dello schwa, il cui simbolo è ə. Sempre l’Accademia della Crusca si è espressa piuttosto duramente nei confronti di questo simboletto, colpevole di essere da un lato, difficile da scrivere in corsivo e dall’altro inesistente a livello fonetico nella lingua parlata.
Da notare il commento finale del lungo articolo di Paolo D'Achille, che potete leggere integralmente qui.
“È senz’altro giusto, e anzi lodevole, quando parliamo o scriviamo, prestare attenzione alle scelte linguistiche relative al genere, evitando ogni forma di sessismo linguistico. Ma non dobbiamo cercare o pretendere di forzare la lingua – almeno nei suoi usi istituzionali, quelli propri dello standard che si insegna e si apprende a scuola – al servizio di un’ideologia, per quanto buona questa ci possa apparire. L’italiano ha due generi grammaticali, il maschile e il femminile, ma non il neutro, così come, nella categoria grammaticale del numero, distingue il singolare dal plurale, ma non ha il duale, presente in altre lingue, tra cui il greco antico. Dobbiamo serenamente prenderne atto, consci del fatto che sesso biologico e identità di genere sono cose diverse dal genere grammaticale. Forse, un uso consapevole del maschile plurale come genere grammaticale non marcato, e non come prevaricazione del maschile inteso come sesso biologico (come finora è stato interpretato, e non certo ingiustificatamente), potrebbe risolvere molti problemi, e non soltanto sul piano linguistico. Ma alle parole andrebbero poi accompagnati i fatti.”