Quando si parla di linguaggio inclusivo si è soliti farne un discorso di genere. Noi di LingoSpell cercheremo di affrontare l’argomento a tutto tondo, spiegandoti quali tipi di linguaggio inclusivo esistono, portando alcuni esempi, e raccontandoti come si affronta tutto questo durante un processo traduttivo.
Quando parliamo di linguaggio inclusivo ci riferiamo in un certo senso alla scelta ponderata e corretta delle parole in un testo o in un dialogo. Infatti, questo approccio prevede l’utilizzo di un vocabolario che riporti frasi, parole o espressioni prive di ogni preconcetto o pregiudizio che miri a denigrare il genere, la razza, la disabilità o altro.
Più in generale, quando si parla di linguaggio inclusivo si pensa subito a una questione di genere, e quindi a come evitare l’utilizzo del maschile generalizzato, ad esempio. Tuttavia il discorso è molto più ampio, e lo affronteremo passo dopo passo.
Infatti, il cliente potrebbe chiederci di lavorare alla nostra traduzione utilizzando questo tipo di linguaggio, ed è per questo che è importante conoscerne peculiarità e linee guida.
Come abbiamo detto, la scelta di parole che rendano un testo inclusivo e neutro, non riguarda soltanto il genere, ma anche altre categorie. Ciò vale sia quando si scrive un testo, sia quando lo si traduce. Cerchiamo ora di analizzare tutte le categorie di cui abbiamo parlato finora.
Se pensiamo alla lingua italiana, o più in generale alle lingue neolatine, nomi, aggettivi e pronomi vengono categorizzati seguendo un sistema binario, che può essere dunque o maschile o femminile. Fin quando parliamo di un oggetto, un animale o una persona ben definita, il problema non sussiste, in quanto ognuno di essi sarà individuato nel contesto come genere maschile o genere femminile. Il problema sorge nel momento in cui parliamo di un gruppo misto: qui, almeno per quanto riguarda la lingua italiana, siamo portati a utilizzare quello che viene comunemente indicato come “maschile sovraesteso”. Faremo a breve degli esempi per spiegare tutto questo, analizzando anche eventuali perifrasi che possano ovviare al problema.
Passiamo ora a un’altra variante del linguaggio inclusivo, dove non parleremo soltanto della questione di genere, bensì di un linguaggio che mira a essere innanzitutto antirazzista. Un esempio chiaro lo si ha quando ci riferiamo a persone di altre etnie, distinguendole per colore. Anche in questo caso, come vedremo tra poco, sono state trovate delle alternative.
In questa terza casistica ci riferiamo a tutti quei casi in cui ci si rivolge a persone affette da disabilità, ponendo l’accento su aggettivi o nomi ormai stereotipati che possono decisamente offendere la persona oggetto della discussione. Ci riferiamo qui a termini della nostra quotidianità che descrivono una persona con disabilità tramite aggettivi o sostantivi dall’accezione negativa. È il discorso della dicotomia che sussiste tra il linguaggio “person-first” e “disability-first”: in un linguaggio inclusivo utilizzeremo un approccio “person-first”, mettendo al primo posto la persona, non la sua caratteristica. Per cui non parleremo di “persona autistica”, bensì di “persona con autismo”; non parleremo di “persona disabile”, bensì di “persona con disabilità”.
L’utlimo approccio che affronteremo sarà legato al discorso dell’età. Pensiamo a tutte le volte in cui si vuole offendere qualcuno utilizzando frasi denigratorie del tipo: “Ti comporti da vecchio!”, oppure: “Stai facendo il bambino, smettila!”. Più in generale, parliamo di un preconcetto secondo cui determinate azioni o comportamenti appartengono in automatico a categorie di persone adulte, adolescenti o di età infantile.
Parliamo ora di come affrontare tutto questo discorso quando si parla di traduzione, o più in generale quando i nostri clienti ci chiedono di essere inclusivi nel nostro approccio.
Ad esempio, casi simili possono accadere nel momento in cui ci troviamo a tradurre testi dall’inglese, che di per sé non è una lingua in cui si pone il problema del genere al plurale.
Per fare qualche esempio, basti pensare al pronome “They” che è unico sia per il genere maschile che per il genere femminile; in italiano, invece, quando parliamo di persone utilizziamo il pronome generico “loro”, quando invece ci riferiamo ad animali o cose, si distinguono i due generi utilizzando invece “essi” al maschile, oppure “esse” al femminile. Inoltre, se pensiamo alle professioni, in inglese esistono termini privi di inflessione di genere: un esempio è “teacher” oppure “professor”, ben diverso dall’italiano dove si distingue tra “maestro” e “maestra” oppure tra “professore” e “professoressa”.
Immaginiamo di dover tradurre alcune e-mail di una newsletter, dove l’utente vede in prima battuta la frase “Welcome to XYZ world”. In italiano, siamo in automatico portati a tradurre come “Benvenuto nel mondo di XYZ”, escludendo quindi tutta la componente femminile della clientela. Utilizzando un approccio inclusivo, invece, un traduttore italiano si avvarrà di diverse perifrasi: nel caso sopra descritto, potremmo tradurre con “Ti diamo il benvenuto nel mondo di XYZ”. Sempre restando sul discorso di genere, pensiamo a frasi del tipo “User joined our group”. Per essere inclusivi, non tradurremo con “L’utente si è unito al gruppo”, ma potremmo optare per “L’utente fa ora parte del gruppo”. Non a caso, infatti, l’Accademia della Crusca ha approvato l’utilizzo di parole inerenti alle professioni in generale anche al femminile, per cui è ora corretto dire “pubblica ministera”, ad esempio.
Per quanto riguarda il discorso razzismo, in traduzione è ormai buona norma evitare il riferimento a persone di altre etnie riferendoci al colore delle stesse. Per cui, se dovessimo tradurre espressioni del tipo “Black people”, non parleremo di “persone nere”, né di “persone di colore”, ma cercheremo più in generale di analizzare il contesto.
Negli ultimi tempi, il discorso linguaggio inclusivo in generale, non solo per quanto riguarda la traduzione, ha trovato delle soluzioni più o meno discutibili che sono ancora in fase di sviluppo. Nel caso della lingua italiana, per ovviare al problema di genere, si è pensato di ricorrere ad alcuni espedienti grafici o fonetici che possano omettere in un certo qual modo il maschile sovraesteso.
Parliamo qui della Schwa, dell’asterisco o della chiocciola, che vengono utilizzati al posto dell’ultima vocale in contesti generici. Potremmo quindi ritrovarci davanti ad alcune frasi come “Benvenut* nella community”, “Ciao a tuttə”, “Siete stat@ ammess@”, eccetera.
In realtà, non esistono delle vere e proprie linee guida stabilite da enti riconosciuti, come nel nostro caso l’Accademia della Crusca, ma semplici espedienti che come dicevamo poco fa non trovano l’approvazione di tutti.
Oltre alle perifrasi di cui abbiamo parlato, un’altra strategia riguarda la sostituzione dei participi. Invece di chiedere a un utente se è “soddisfatto/a” di un servizio, gli chiederemo semplicemente: “Il servizio x ti soddisfa?”, utilizzando così una forma più generica.
Altro espediente: utilizzare frasi passive. “Gli insegnanti hanno tenuto la lezione di economia giovedì, diventerà “La lezione di economia si è tenuta questo giovedì”.
L’evoluzione della lingua
Per concludere le nostre riflessioni, potremmo semplicemente dire che le lingue in generale sono in continua evoluzione, sia dal punto di vista della grammatica che per della terminologia. Basti pensare tuttavia al potere che risiede nelle parole stesse che scegliamo di utilizzare. Il linguaggio inclusivo ci permette di parlare e scrivere in un modo del tutto libero da ogni preconcetto o pregiudizio, non discriminando le persone secondo il genere, la razza, l’età o le loro caratteristiche fisiche o psichiche. Per il momento non è una regola, bensì una buona norma che non tutti condividono.
Infine, in merito al discorso traduzioni, specie se richiesto dai nostri clienti, abbiamo visto come attraverso il ricorso a diversi espedienti legati a perifrasi o altre strategie, possiamo far sì che il nostro testo sia gender-neutral e inclusivo a tutti gli effetti.